Nell’ormai lunga storia dell’intervento iraniano in Siria e Iraq in opposizione all’avanzata dei gruppi jihadisti, Stato islamico in primis, la figura del generale Qasem Soleimani ha assunto sempre maggior rilevanza. Sessantuno anni, originario della povera provincia di Kerman, Soleimani ha vissuto da soldato e uomo d’armi sin dal 1980, quando l’Iran rivoluzionario dovette affrontare la sfida mortale lanciatagli dall’Iraq di Saddam Hussein e l’attuale generale, arruolatosi nei Guardiani della Rivoluzione l’anno precedente, dette prova del suo valore dapprima come comandante di compagnia e, in seguito, come leader di unità sempre più consistenti, ultima e più importante delle quali la leggendaria 41esima divisione Tharallah (Sarallah). Protagonista negli anni Novanta di una durissima campagna di repressione del narcotraffico ai confini con l’Afghanistan e vicino all’area politica più conservatrice, tanto da essere uno degli ufficiali dei Pasdaran che nel 1999 firmarono una lettera inviata al presidente Mohammad Khatami, chiedendogli di reprimere la rivoluzione degli studenti, minacciando in caso contrario di rovesciarne il governo, Soleimani fu nominato nel 1998 a capo della Forza Quds, l’unità di élite dei Pasdaran destinata alle operazioni speciali, che attualmente dirigeva. E alla testa della quale ha costruito il suo mito.
L’ascesa dell’allora quarantenne generale dei Guardiani alla guida della Forza Quds anticipò di poco l’inizio della tempesta geopolitica che ha sconvolto il Medio Oriente a inizio millennio. Per le strategie iraniane, Soleimani è stato l’uomo giusto alposto giusto: in una fase cruciale per gli interessi del paese, si può affermare che il generale è stato l’uomo che più di ogni altro ha determinato le politiche concrete di Teheran sul campo. Nel 2013, Dexter Filkins ha rivelato sul “New Yorker” che poco dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 Ryan Crocker, del Dipartimento di Stato statunitense, si era recato a Ginevra per trattare con un gruppo di ufficiali iraniani guidato da Soleimani una collaborazione strumentale tra intelligence volta a accelerare la fine del regime dei talebani in Afghanistan, contro cui Teheran si era schierata a causa delle persecuzioni contro la locale minoranza sciita. Tale collaborazione ebbe vita breve e fu interrotta dalla svolta neoconservatrice dell’amministrazione Bush nel 2002, che portò l’ostilità iraniano-americana ai massimi storici. Dopo l’invasione statunitense dell’Iraq del 2003, Soleimani fornì supporto logistico all’insorgenza sciita e modellò la crescita dell’influenza iraniana sull’Iraq, testimoniata dal sostegno garantito all’elezione alla carica di primo ministro di Nuri al Maliki.
L’impegno diretto più importante sul campo, per Soleimani, sarebbe tuttavia arrivato nel 2012, quando fu chiamato a garantire il decisivo sostegno dell’Iran al legittimo governo siriano impegnato nella guerra civile. Nella seconda metà del 2012 il regime di Assad è alle corde: colpito dall’isolamento internazionale e assediato dalle orde dei ribelli e dei jihadisti, si prepara a difendere la capitale Damasco da un assalto in grande stile. L’Iran, alleato geopolitico della Siria, interviene assieme alle milizie sciite libanesi di Hezbollah per sostenere le forze governative, e Soleimani ha un ruolo decisivo in questa operazione. Il generale iraniano stabilisce il suo comando a Damasco e porta i pasdaran ad addestrare, motivare ed equipaggiare le forze regolari siriane, a organizzare un sistema di monitoraggio continuo delle comunicazioni nemiche e a formare un corpo di milizie di sostegno denominato National Defence Force (Ndf). Bret Stephens del “Wall Street Journal” ha paragonato gli esiti dell’intervento della Forza Quds di Soleimani in Siria a quello, travolgente, seguito all’arrivo di Erwin Rommel in Africa nel 1942: nel 2013 la battaglia di Al Qusayr, organizzata da Soleimani e contraddistinta dall’intervento sul campo degli Hezbollah, sancì l’inizio della riscossa per il legittimo governo siriano.
Dopo l’intervento russo nel 2015, la controffensiva amplificò il suo raggio d’azione. Nel settembre 2015 Soleimani fu più volte ospite dei vertici militari russi a Mosca per concordare l’azione congiunta aria-terra tra gli alleati pro-Assad. A partire dal 2016, essa si concentrò sulla regione di Aleppo: tra febbraio e dicembre 2016, gli iraniani giocarono un ruolo fondamentale nelle battaglie contro i jihadisti che aprirono la strada all’assalto diretto alla città, la cui liberazione ha rappresentato l’evento più importante della seconda fase del conflitto siriano. Nel dicembre 2016, degli scatti fotografici sembrano ritrarlo nella cittadella di Aleppo da poco liberata. Le foto sono contestate, perché Soleimani è praticamente irrintracciabile. Come scritto dall’”Intellettuale Dissidente”, «numerosi testimoni rimangono impressionati dalla sua calma presenza, incorniciata dalla divisa militare e dalla barba grigia. Allo stesso tempo è inafferrabile, fugace: compare e scompare, come fosse in un gioco per bambini. Leggenda narra che si permettesse di passeggiare senza guardie del corpo a Baghdad durante l’occupazione statunitense del paese».
E proprio con l’Iraq Soleimani ha fatto più volte la spola negli anni passati, sostenendo l’azione delle milizie sciite intente a combattere l’Isis. Dapprima nel 2014, per rompere l’assedio di Amirli, poi, nel 2015, per completare la liberazione di Tikrit, in entrambi i casi alla guida delle tenaci e, non di rado, efferate milizie sciite denominate Forze di Mobilitazione Popolare. La guerra in Iraq e Siria è un conflitto brutale, senza pietà: la memoria dei 1.500 cadetti d’aviazione iracheni massacrati dalle bandiere nere a Camp Sepicher è viva nei liberatori della città natale di Saddam Hussein nel momento in cui questi, al termine di un aspro combattimento che ha visto l’inedito supporto dei raid aerei occidentali agli sciiti, cacciano l’Isis dai suoi sobborghi. Si parla di crimini di guerra, e non sarà l’unica volta dopo la cacciata dell’Isis dalle città irachene. Qasem Soleimani non ha mai nascosto la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei e all’ala più conservatrice della politica iraniana. Da soldato tutto d’un pezzo, ha applicato al meglio le direttive politiche della presidenza Rouhani, ma è anche stato in grado di adattarsi ad esse plasticamente. Di fatto, Soleimani ha forgiato l’intera strategia regionale iraniana e rafforzato il sistema d’alleanze di Teheran nel paese.
Ci si chiedeva spesso se il generale, che nel 2017 aveva guidato altre importanti offensive in Siria nella regione di Hama, potesse sfruttare la sua popolarità per un futuro in politica. I conservatori guardavano alla sua figura come all’ideale candidato alla presidenza capace di sfruttare una popolarità immensa, ma Soleimani ha sempre fatto del campo di battaglia il suo mondo ideale e raramente ha pronunciato parole di peso esclusivamente politico. Mentre tuttavia la nuova amministrazione repubblicana degli Usa rafforzava la sua ostilità verso Teheran, Soleimani ha compiuto due gesti importanti che hanno segnalato prese di posizione nette: nel dicembre 2017, sprezzante, ha rifiutato di rispondere a una lettera minacciosa del direttore della Cia Mike Pompeo e, più di recente, ha attaccato direttamente Donald Trump. «Vi stiamo addosso, arriviamo dove neanche vi potete immaginare. Noi siamo pronti. Se voi iniziate la guerra, saremo noi a finirla», ha dichiarato il generale ad Hamedan in risposta alle provocazioni Usa seguite al ripudio dell’accordo sul nucleare. Parole che segnano un cambio di registro nell’approccio pubblico del silenzioso, enigmatico Soleimani. Ma che sicuramente saranno suonate come musica a chi vedeva, in lui, il leader futuro di un Iran a guida conservatrice, fieramente anti americano.
Nonostante le indiscrezioni su un possibile futuro politico, Soleimani continuò anche dopo il 2017 a dirigere sul campo le unità in Iraq, con la Quds Force schierata a fianco delle Forze di mobilitazione popolare di matrice sciita intente a spazzare via gli ultimi resti dell’Isis e a posizionarsi per la contesa politica per il futuro del paese. Pensatore strategico di ampio respiro, Soleimani riteneva infatti necessario per l’Iran consolidarsi nella regione di influenza superata la fase di aperta conflittualità, preservando i legami con i proxy regionali di Teheran. Di fatto, nel momento più acuto della ripresa degli screzi tra Usa e Iran Soleimani è parso quasi eclissarsi, eccezion fatta per alcuni battibecchi via social e stampa con i vertici di Washington, come a dare l’impressione di una sua assoluta concentrazione sugli affari geopolitici della Repubblica Islamica. Soleimani non ha mai voluto, di fatto, lo scontro a viso aperto con gli Usa, da lui ritenuto logorante e rovinoso. Tra il 2018 e il 2019 Soleimani fa a lungo la spola oltre il confine iraniano-iracheno su cui la sua carriera militare ha avuto, in gioventù, il battesimo del fuoco.
Tra problemi politici e instabilità interna l’Iraq si contorce tra elezioni contese, influenze esterne e emersione di un polo trasversale di sciiti e sunniti oppositori dell’ingerenza esterna iraniana e irachena. Soleimani fece da consulente al governo iracheno quando nella seconda metà del 2019 le proteste contro il caro-vita, la corruzione e l’instabilità divamparono tra la capitale e il resto del paese, mentre le truppe a lui fedeli davano sempre maggior segno di irrequietezza. Sospetti non confermati individuano nei Kata’ib Hezbollah e nelle altre Fpm i principali responsabili della repressione delle proteste avvenuta tra settembre e ottobre 2019. Nel caos iracheno si sono inseriti gli Usa, colpendo Kata’ib Hezbollah nel suo quartier generale vicino Al Qa’im il 29 dicembre in risposta a un attacco a una base militare a Kirkuk. Soleimani è arrivato in Iraq a cavallo tra il 2019 e 2020, mentre a Baghdad gli iracheni assaltavano l’ambasciata americana, ma proprio nell’aeroporto della capitale irachena è stato sorpreso da un raid americano in cui ha perso la vita il 3 gennaio 2020.
(Andrea Muratore, “Chi era il generale Qasem Soleimani”, ricostruzione aggiornata nell’inserto “InsideOver” del “Giornale” dopo l’omicidio dello stratega iraniano).